Olimpiadi. Tosi e Consolini: epiche battaglie tra i duellanti del disco (Gianni Brera)

Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi
Per oltre vent'anni, dal 38 al 60, l'atletica italiana ebbe i suoi dioscuri nei discoboli Tosi e Consolini. Venivano entrambi dalla campagna ed erano della medesima schiatta celtico-lombarda: Tosi della riva destra del Ticino di Novara, dove peraltro si erano insediati - nel Mille a.c. - i liguri Laevi; Consolini, della riva veronese del Garda.
Tosi, di nome Giuseppe, ignorava lo sport prima che, da carabiniere, fosse prescelto quale corazziere del re. Era così alto ed imponente che, rifacendomi alla letteratura epico-avventurosa, lo paragonai subito a Porthos. Gli ficcarono un disco in mano quando era già espanso di trippe sopra le gambe del longilineo. Nonostante che lo stile concepito da Comstock e Oberweger fosse maledettamente costretto in dogmi abbastanza arbitrari, capì subito quello che doveva: coordinato come pochissimi al mondo, riuscì a tener la pedana a dispetto delle gambe assai lunghe e conseguì risultati squillanti, ma per sua sfortuna marcia, davanti a lui piroettava da tempo Consolini. Se Giuseppe Tosi era Porthos, Adolfo Consolini era Aramis, però maggiorato di qualche buon palmo in lungo e in largo. Soffriva molto il suo nuovo sanguigno avversario dal vocione virile, motteggiatore bonario e perciò efficace (perché non vi era ombra d'invidia nel suo modo di fare): lui, Adolfo, aveva una voce in strano contrasto con la sua possa scultorea: talvolta gli si rompeva in gola strappando cordiali risate a Giuseppone, che non si dava pace di venir superato per sola virtù di tecnica. Era comunque un bellissimo duello, tale da chiamare in causa Freud e persino Pende, famoso endocrinologo pugliese.
Contro ogni apparenza, Consolini era fragile come una fanciulla e la preponderanza pallica di Tosi lo sconvolgeva fino a fargli spropositare i ritmi e le mosse. Così accadeva che, dopo aver raggiunto distanze mondiali in allenamento, Consolini perdesse malamente in gara con Tosi, che lo annichiliva dall'alto del suo smargiasso agonismo. Fra i due, c'era Giorgio Oberweger, longilineo di ingegno anche sottile. Suo padre era stato funzionario austriaco: a Trieste aveva sposato un'istriana e messo al mondo lui, che la prestanza fisica aveva subito indotto a fare sport. Riusciva in tutto, nella corsa ad ostacoli e nel salto con gli sci, nel nuoto e nel lancio del disco. Lo presero al Guf Bologna e ne fecero un dilettante di Stato sui generis. Quando venne iscritto alle Olimpiadi di Berlino, Giorgione Oberweger non era ancora naturalizzato italiano: a Berlino trovò le due balene americane, Carpenter e Dunn, e non potè andar oltre il terzo posto con 49 metri e rotti. Poi, fece ben altro, non esclusa la guerra.
A Napoli superò il record del mondo ma i giudici non gli credettero! Guardavano evoluire un aereo: non si accorsero del punto in cui era caduto il disco e quando pretese che appuntassero il picchetto, gli risero in faccia: "Neh, guagliò, ma quello sarebbe 'o record do mondo!". Oberweger se ne andò via per non piangere e maledisse il collega aviatore che da Capodichino era venuto a distrarre quei coglioni ineffabili. Oberweger fece il cacciatore in Africa e abbattè anche degli spitfires con un aereo che non li valeva. Fu il solo a confessarmi di aver dato penosamente di stomaco dopo aver volteggiato a lungo nel cielo per scampare alla morte e magari infliggerla ai nemici. Con Oberweger ho vinto tante Olimpiadi, stando seduto a tavola, che quando mi garantì che ne avrebbe vinta un'ennesima con Livio Berruti non gli credetti guari: presi note per non offenderlo ma poi andammo insieme a pescare boccaloni con zio Pietro Petroselli e mi dimenticai di scrivere e pubblicare l'intervista. Berruti fu il mio primo glorioso abatino. Non vinse con due metri come giurava Oberweger, però si aggiudicò l'Olimpiade e corse due volte i duecento metri in venti secondi e cinque che era primato mondiale, nello stesso pomeriggio! Io amo in Pietro Paolo Mennea la mia disperata bruttezza di scorfano italiota; ammiro la sua ascesi agonistica e se non temessi di esagerare direi che la venero: ma corridori belli come Livio Berruti felicemente espresso dalle nostre risaie mai sono riuscito a vederne in mezzo secolo...
Dicevo prima di Freud e di Pende. Oberweger venne detronizzato da Consolini squittente come fanciulla pudica nel suo poderoso torace fidiaco. Gli insegnava e imponeva regole folli, legate a mosse non molto dissimili da quelle - astruse assai - di Mirone: solo quando sbagliava, notai, Consolini faceva risultato! Il giorno che riconquistò il primato mondiale, all'Arena ricordo benissimo di averlo maledetto per aver chiuso con il disco troppo vicino al fianco: anch'io evidentemente ragionavo secondo i dogmi comstockiani: poi, per chissà quali misteriosi impatti, il disco prese a volare in alto roteando nell' aria senza uno sgarro: planò oltre la metà del campo di calcio: venne misurato il lancio: era di 55,27: con Tosi, esterrefatto, era anche Emile Zatopek, forse il più strabiliante hilaris demens dell'intera atletica mondiale.
Oberweger cercò di incistare nel proprio inconscio il "fastidioso proiettile Consolini": il dottor Sigmund parla in questi casi di "rimozione" ma è termine improprio: niente si può rimuovere se non con il bisturi: se una cosa sgradevole rimane dentro, la devi forzatamente incistare: e Ober cercò di farlo servendosi di Tosi e della sua pelle generosa. Tosi batteva Consolini di almeno due metri a Perugia, durante la preparazione per Londra 1948. I dioscuri si rilanciavano l'attrezzo stando ciascuno sulle soglie dell'area opposta: e Tosi annichiliva Consolini. Lo vedemmo trionfante, allora, Ober ed io: dimenticammo però un particolare: che lanciavano fuor di pedana, sul campo di calcio, e che posando anche l'orlo di una scarpetta sul cerchio della pedana sarebbe stato lancio nullo. Per Londra, era da temere Fortune Gordien, americano sbruffone (o forse furbo, chissà: gli avrà pure detto qualcuno di Aramis-Consolini e delle sue virginee trepidazioni). Gordien lanciava normalmente sui 54 e andava dicendo che avrebbe cavato il titolo olimpico da uno dei suoi lanci come suo padre prestidigitatore cavava il coniglio dal cappello a cilindro. Solo Tosi aveva i cinquanta metri nel braccio e nelle gambe non Consolini: ed Oberweger ed io speravamo che Tosi battesse Gordien.
Quel fatidico giorno piovve abbondantemente. Dalla pedana si schizzava fuori al minimo accenno di piroetta veloce (per sfruttare la forza centrifuga). Il solo a restare bene in pedana era Consolini, che aveva il centro di gravità più basso rispetto ai due avversari. Volendo forzare, Gordien non infilò che nulli. E Tosi gli fu appena superiore. Consolini vinse con una misura che oggi fanno anche gli allievi, oggi. Modestamente, ci vidi un segno del destino una strizzatina di Apollo se non addirittura di Ercole semi-divino. Tosi fu medaglia d'argento e ne rimase molto smorfiato. La pioggia lo aveva tolto di mezzo, lui come Gordien lo sbruffone. Aramis Consolini conquistò il titolo olimpico ed ebbe mezzo milione in premio dalla Fidal. Poco dopo, ricevetti da lui presso il giornale un assegno di 25 mila lire in segno di riconoscenza "per averlo sempre sostenuto e incoraggiato". Nonché offendermi, la cosa mi commosse molto. Rimandai l'assegno a quegli che era ormai un impiegato della Pirelli e mi dissi spiacente di non poter accettare il suo amichevole dono: un giorno, chissà, gli avrei chiesto di aiutarmi ad acquistare un impermeabile con ragionevole riduzione...
Racconto questo episodietto per dire quanto fosse onesto anzi candido Consolini. Io non fui di un mignolo superiore a Carletto Uboldi, cursore mancato della prima maratona olimpica: infatti, ho restituito il dono precisando che io - e non altri - avrei dovuto mandare un assegno al più grande discobolo della nostra storia. In seguito, Consolini riconquistò il primato mondiale e fu secondo a Helsinki, dove era convinto di poter vincere ancora. Due anni prima, a Bruxelles, aveva puntualmente trionfato nei Campionati europei.
Erano giorni splendidi. La vecchia "Gazzetta" faceva tiratura per l'atletica leggera, cosa mai successa nella sua storia. Oberweger aveva preparato Consolini e Tosi con lo stesso impegno (ma chi aveva letto Freud sapeva dell'agognata rimozione). Io avrei tanto voluto che Tosi vincesse finalmente un titolo degno della sua enorme classe e mi concertai con un amico e collega ad esercitare dooping su di lui (dooping è termine olandese e penso che significhi raddoppiare). Ahimè: ero tanto mal pratico di queste diavolerie che pensai bastasse propinare a Porthos il doppio della mia consueta razione di pillole al fosforo e alla vitamina C per scatenarne la titanica potenza (una ineffabile madame Bovary svizzera mi aveva insegnato quel dooping: sulla scatoletta triangolare, in vendita presso tutte le farmacie, erano solennemente promesse force enduranceenergie). Porthos mi guardò dubbioso con i suoi occhi azzurri da sopravvivente longobardo: si accorse che volevo sinceramente aiutarlo e inghiottì pari pari. Poi scese in pedana muggendo come un Miura e giostrò con tale furore che il disco, ad ogni veemente chiusura, usciva sfarfallando dalla sua manona ciclopica. Breve: non azzeccò un solo lancio degno della ciclonica potenza espressa in quei vortici: il regolarista Consolini fu ancora primo e Porthos, senza malanimo, si rassegnò a una sorte insopportabilmente ingiusta con lui. Forse, nella sua fondamentale onestà, ebbe a spiegarsi l'insuccesso con la innocente gherminella chimica: era così intelligente che tutto poteva servire a consolarlo di vivere.
"La fortuna così vuole" ripetè Porthos scuotendo il capo, e ne rise come una certa sera che, ammiccando verso un cespuglio in ombra mi sussurrò: "La Nina sta violentando Adolfino!". Sgranai tanto d' occhi. Eravamo a Oslo, in occasione degli Europei 1946. La Nina era priopriamente la gèante di Baudelaire e Porthos muggiva, letteralmente, all' idea di non dormire, nonchalamment, à l' ombre de ses seins. La bellissima Nina lo respingeva, pur sorridendogli grata. Georgiana, forse contadina, evidentemente obbediva ai criteri di selezione applicati dagli allevatori del suo paese. Così, scelse il campione d' Europa, non il suo secondo. Forse non aveva nemmeno letto Dumas e non sapeva di Aramis. Adolfo entrò squittendo fra quei cespugli e obbedì ai doveri di classifica. Giuseppe Tosi ed io ci bevemmo sopra. Che altro fare? Finalmente, arrivò spennacchiatissimo Adolfo a dividere gli ultimi sorsi. Scuotendo il capo con un sospiro spiegò: "xe sta ela che g'ha vorsù". Porthos guardò il soffitto e bestemmiò, acre, tutti gli dei del cielo.


“la Repubblica”, 24 luglio 1984  

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