Tutto cominciò con una scatoletta di sardine regalatale dal professor Bruno, quando l’anno scorso abitavamo anche noi al Vahombe. Tina mi chiese se poteva accettarla e siccome non si rifiutano i regali degli amici, le dissi di sì. Poi andammo in gita a Saint Augustin e al ristorante di Esperance Tina mi chiese se lei e Annika potevano mangiare riso con i “tsytsyky”, i gamberetti. Anche in quel caso, non volendo passare per un dittatore autoritario, concessi loro questa scelta. Poi, un paio di mesi fa, al ristorante “Le Cilaos”, Tina manifestò il desiderio di mangiare pollo. Glielo permisi purché non diventasse un’abitudine. Così, tra richieste respinte e accordate, arrivammo all’altro giorno. Tina mi ha chiesto l’autorizzazione di comprare del pesce e farlo cucinare da Karola, la figlia di Sitra che è stata allontanata di casa e che si trovava da noi perché l’indomani dovevamo partire per Tanà. Qualcuno deve pur rimanere insieme alla tredicenne Annika, in nostra assenza.
I cinque “tsabeaky” che la ragazza aveva comprato al mercato furono da lei stessa puliti ed eviscerati sotto l’albero di manghi, ma senza che venissero decapitati. Tina dice che sono animali diversi dagli altri. Non versano sangue e quindi si può mangiare anche la testa. Ho notato che Karola ha praticato un’incisione su entrambi i fianchi dei pesci, come da noi si fa con le castagne prima di metterle sulla padella bucata e trasformarle in caldarroste. Dipende dal fatto, probabilmente, che il calore, all’interno di un corpo, produce gas che deve trovare una via di sfogo, sia che si tratti del tegumento di una castagna, sia che si tratti della pelle squamosa dei pesci.
La cottura è durata pochi minuti ed è
stato utilizzato normale olio di semi. I pesci sono stati fritti prima su un fianco e poi sull’altro. Dico questo perché, come ho spiegato anche a Tina, quando mezzo secolo fa mia madre il venerdì friggeva il pesce, io non stavo a guardare, perché ero fuori a giocare e piombavo a tavola solo quando mi chiamava. Ai miei lettori potrà sembrare strano, ma osservare l’operazione di friggitura del pesce, il 31 gennaio scorso, per me è stata una novità, perché è da quand’ero ragazzo che non mangio pesce fritto.
Per la loro cottura è stata usata la nuova “fatapera” creata dall’associazione umanitaria svizzera “ADES”, fatta in terracotta verniciata di verde e che ha il vantaggio di consumare molto meno carbone rispetto a quelle tradizionali, in metallo, usate dalla povera gente. Non costa neanche tanto, 10.000 ariary (2,80 euro), ma evidentemente le abitudini sono dure a morire e il suo utilizzo non è molto diffuso nella popolazione.
Quella sera a cena, le tre donne di casa, Tina, Annika e Karola si sono sentite meno estranee rispetto a quando devono, per mia “colpa”, mangiare vegetariano. La mia presenza le fa sentire come se fossero in punizione. Non capiscono cosa hanno fatto di male. Per me è già un compromesso adottare una dieta vegetariana, che includa uova e formaggio, ma Tina ha spinto la linea di confine tra le nostre due visioni del mondo un po’ più dalla sua parte. Per fortuna, ha dichiarato che, a parte il pollo, la carne di zebù e di maiale non le piace, altrimenti non credo che le concederei di portarla in tavola. Sono i miei soldi, in fondo, quelli che sono stati usati per comprare il pesce. Per tutta la mia vita passata, uno dei miei principi etici è stato che non dovevo finanziare gli assassini di animali. E finora ci ero sempre riuscito, se escludiamo il cibo per cani. Qui, in questo contesto tropicale, sto passando di compromesso in compromesso, ma l’unica nota positiva è che non ho provato il minimo desiderio di assaggiare il pesce fritto, benché il suo odore, che aleggiava nell’aria, non fosse particolarmente sgradevole, grazie al fatto che mi ricordava l’infanzia.