ROMA, 11-12 MARZO: UN “PIANO B” CONTRO LA UE DEGLI OPPRESSORI di Norberto Fragiacomo




ROMA, 11-12 MARZO: UN “PIANO B” CONTRO LA UE DEGLI OPPRESSORI

Nell’aula gremita del Campidoglio risuona l’ammonimento della compagna greca Zoe K., che Risorgimento Socialista fa proprio:”Nessun negoziato con chi ci opprime!”
di Norberto Fragiacomo


Sabato 11 marzo, a Roma, è già primavera.
Assieme ai compagni Angiuli e Pastore, dirigenti di Risorgimento Socialista, ascendo al Campidoglio sotto un cielo inimitabilmente azzurro e terso, con ancora negli occhi le maliziose espressioni femminili carpite ed eternate da Giovanni Boldini: ci attende la tappa italiana (la quarta di un cammino iniziato a Copenhagen) di “A plan B for the EU and the Euro-zone”, sorta di convegno itinerante sulle prospettive future della Sinistra e del continente europeo.
Un pomeriggio e una mattina di dibattiti – lo scopo: definire i contorni di questo fantomatico “Piano B”, che ciascuno finora si sentiva libero di riempire di contenuti a piacere.

La sessione plenaria dovrebbe durare un’ora, dalle 13 alle 14 (più mezz’ora dedicata ai “saluti” di Fratoianni, McDonnell del Labour e Ferrero): rispettare i tempi si rivelerà impossibile, le cose da dire sono semplicemente troppe. In attesa dell’arrivo dei relatori scambio qualche parola in spagnolo con l’ecuadoriano Pedro Pàez, ex ministro di Correa; d’improvviso la sala prende vita quando, inseguito da uno stuolo di giornalisti, letteralmente vi irrompe Jean-Luc Mélenchon, candidato del FdG (Sinistra francese) all’Eliseo. Non mi stupisco dell’entusiasmo che ha saputo suscitare oltralpe (ben superiore ai risultati elettorali, purtroppo): l’uomo irradia carisma. A sorpresa si ferma a chiacchierare con noi di Risorgimento: difficile immaginare riconoscimento più eloquente della bontà del lavoro fin qui svolto dal nostro responsabile Esteri, compagno Giuseppe Angiuli.
Ci sediamo, il convegno ha puntualmente inizio. Il primo a prendere la parola è Stefano Fassina, che dopo l’addio al PD è ospite in Sinistra Italiana. Ricordo una sua discussione con il prof. Pastrello, un anno e mezzo fa al Cafè S. Marco di Trieste: allora, trattando di Europa e moneta, mi parve cauto, titubante, quasi timoroso di “andare troppo oltre”. Sabato, verso l’ora di pranzo, a essere diverso è soprattutto il tono – “merito” della platea, del tempo trascorso, di più approfondite riflessioni oppure, verosimilmente, del combinarsi di tutti e tre i fattori citati. La missione del Piano B – esordisce – è “risolvere in prospettiva labourtre tabù: moneta unica, commercio internazionale e debito pubblico”. Tra un paio di settimane “statisti” e accademici converranno nell’Urbe per celebrare il sessantesimo anniversario della nascita della CEE: Fassina scuote il capo, c’è ben poco da festeggiare. Poi piazza una stoccata che lascia il segno: “nel Trattato di 60 anni fa è presente l’impianto mercantilista che ha dato vita a Maastricht e al Fiscal Compact”. Non avendo dubbi in proposito da parecchio tempo (almeno da quando ho avuto la ventura di leggere l’ambiguo, incompreso e troppo celebrato Manifesto di Ventotene) applaudo con convinzione. L’Unione e l’Eurozona sono sulla rotta del Titanic – prosegue Fassina – e questo non è un caso, bensì la conseguenza dei principi che stanno dentro i Trattati. L’UE ha aggravato gli effetti della globalizzazione, con la complicità del PSE: i Trattati e il Fiscal Compact, espressioni di “estremismo liberista” sono antitetici alle nostre Costituzioni sorte dalle resistenze popolari. Due sarebbero le rotte alternative possibili: una è il cd. Piano A, che prevede di scardinare il mercantilismo senza intaccare le istituzioni, mettendo regole a protezione del lavoro. Per il sottoscritto trattasi di pia illusione (poiché, come ho spesso argomentato, questa “Europa” è stata creata proprio per fare ciò che sta facendo), il relatore ammette che “la strada è poco realistica, perché priva delle ragioni storiche del consenso di popolo, specialmente in Germania”. Resta allora il Piano B, che nasce dal riconoscimento dell’impraticabilità politica del Piano A e dalla sterilità di demenziali “appelli astratti a più Europa”. Il Piano B è urgente, dichiara Fassina: l’euro allontana i popoli e li mette gli uni contro gli altri. Che fare? Rimettere al centro lo Stato nazionale. Come fare? Attraverso un “divorzio amichevole” (soluzione concordata) o, nella peggiore delle ipotesi, tramite atti unilaterali (il c.d. negoziato ostile). L’economista ex PD conclude la sua apprezzabile allocuzione osservando che “sta crescendo la consapevolezza che questaintegrazione non può continuare”.
Un intervento chiaro e limpido, senza ipocrisie, cui fa seguito quello della “star” del convegno, Mélenchon, accreditato dai sondaggi del 12% dei consensi al primo turno delle presidenziali (tanti, ma ancora troppo pochi. La domanda cui bramerei una risposta netta è la seguente: come verranno spesi al ballottaggio?). Non essendomi per pigrizia o dabbenaggine munito di cuffie, vado un po’ a orecchio: impresa senz’altro ostica per chi, come me, non conosce il francese. Colgo frammenti di ragionamento: l’idea europea di progresso sociale e civile non appartiene affatto alla UE, che ha ottenuto l’unico risultato di mettere le nazioni l’una contro l’altra. Non vogliamo più – dice il leader d’oltralpe – andare avanti con un’Europa dove sono vietate l’armonizzazione sociale e quella fiscale. Di conseguenza, “il Piano B è frutto della Storia, ed è una garanzia di pace.” Mélenchon tende la mano alla Russia, che per la Francia deve “essere un partner, non un nemico”.
Accanto a me una brava compagna siciliana dà voce a una perplessità che immagino in parecchi stiano covando: tutto condivisibile, ma in cosa consiste precisamentequesto Piano B?
E’ a questo punto che prende la parola Zoe Konstantopoulou, Presidente del Parlamento ellenico durante il primo governo di Syriza, partito da cui è uscita dopo il voltafaccia di Tsipras. La sua non è una relazione: è un appello appassionato e appassionante, che mette i brividi (pronunciato in un ottimo inglese, fra l’altro). “L’euro è un’arma contro la democrazia” scandisce, “dobbiamo riconquistare la sovranità politica e monetaria”. Il Popolo Greco ha pronunciato “un NO glorioso, che ci rende fieri”: un no che i creditori – con la complicità dei loro lacchè politici – hanno trasformato in un sì. Il quadro che Zoe traccia è spaventoso: le persone in Grecia versano il 90% delle loro entrate in tasse e contributi – è tempo di dire di nuovo NO al genocidio sociale, al memorandum (che regala gli asset pubblici per 98 anni a un fondo lussemburghese), alla miseria, alla disperazione, ai suicidi indotti. La domanda che pone all’uditorio è questa: “sono soli i greci contro tutto questo? Sono soli i popoli europei contro gli avidi creditori, davvero non c’è altra scelta? La nostra risposta - continua - è mettere in piedi un piano B, che consiste nell’allearci per creare l’alternativa, affermando che la democrazia e i diritti umani sono stati violati”. I popoli – sostiene – devono proteggersi e difendere la democrazia disobbedendo, l’Unione Europea tutela, e con piena consapevolezza, soltanto gli interessi di lobbies e oligarchie. Il messaggio è chiarissimo: “abbiamo a che fare con degli oppressori, e con gli oppressori non si negozia, perché negoziare con loro equivale a legittimarli! Le scelte difficili sono quelle che hanno cambiato il corso della Storia” – poi Zoe tace, e viene sommersa da applausi commossi. La mia vicina commenta, ammirata: “ha parlato da rivoluzionaria”. Io ribatto: “sono i tempi a costringerci ad essere rivoluzionari, non la nostra volontà individuale”.
Ecco una nuova, più convincente declinazione del Piano B: nessuna trattativa, tocca disobbedire e rompere con questo sistema di potere politico-economico.
L’oratore successivo, Sjöstedt, è uno svedese dall’aria distinta: inutile cercare, nel suo intervento, la passione che ha animato quello di Zoe, tantomeno impeti rivoluzionari. Chiude il suo compitino con un’esortazione, che sarà rilanciata (e meglio precisata nei contenuti) da Paolo Ferrero: “la UE difende lo status quo, ma la Sinistra può vincere questa battaglia: malgrado le nostre differenze dobbiamo lavorare insieme”. Approvo senz’altro, ma vorrei chiedergli (a lui e pure a Ferrero): sareste disposti a rompere definitivamente con la UE? Perché hic et nunc il punto dirimente, a parer mio, è questo e nessun altro.
Rivaluto il contributo di Sjöstedt ascoltando quello di Eleonora Forenza, europarlamentare de L’Altra Europa (in quota PRC). La compagna barese, classe ’76, scongela un discorso che diresti preconfezionato una decina d’anni fa: retorica strappalacrime su migranti da accogliere a prescindere, attacchi alle destre (con dentro il “cattivissimo” Putin, naturalmente), enfasi sugli immancabili diritti civili, un po’ di colore rossiccio, analisi generiche e poco impegnative – “sinistra astratta”, insomma. Non ricopio qui l’appunto vergato al volo sul foglio A4, fin troppo tranchant, ma il riferimento finale alla “ribellione” merita riportarlo, perché è roba da Monty Python: essa si ridurrebbe alla candidatura di Mélenchon e al variopinto corteo previsto a Roma per il 25 marzo. A cent’anni dall’Ottobre un simile paragone suona come una freddura: apprezzando il senso dell’umorismo, batto fiaccamente le mani. Cos'altro aspettarsi, ad ogni modo, dall’esponente di una lista che pretende di creare un’altra Europa insieme al rinnegato Tsipras?
La plenaria si chiude con i greetings, gli indirizzi di saluto: McDonnell non si trova, Fratoianni ci propina un discorsetto dai toni accesi, ma dal contenuto abbastanza innocuo. Un passaggio però è degno di nota: se siamo troppo deboli per imporre un Piano A, non lo siamo anche per mettere in atto un Piano B “concordato”?, domanda agli interlocutori. In tutta onestà gli do ragione, ma annoto mentalmente che Zoe gli ha già risposto, con appassionata eloquenza.
Paolo Ferrero ricorda agli astanti che Rifondazione è stato l’unico partito italiano, nel ’92, a votare contro Maastricht e propone di passare “dalla guerra tra i poveri alla guerra dei poveri contro le oligarchie”, incitando anche lui alla disubbidienza in ciascun Paese. In platea serpeggia il solito quesito: sì, ma come fare?

E’ giunta l’ora dei tavoli tematici, che si terranno in due sale adiacenti. Mi perdo Giacchè, purtroppo, ma non il sempre affascinante Manolo Monereo(parlamentare di Podemos conosciuto ad Assisi), che ci rammenta come il neoliberismo, e in generale il Capitalismo, siano incompatibili con la democrazia. Dovrebbe trattarsi di un fatto notorio, certificato dalla cronaca quotidiana, ma così non è: in una biografia non disprezzabile dedicata a Lenin, l’autore – in pieno 2017! – lamenta il fatto che “milioni di persone e alcuni pericolosi leader populisti, di destra e di sinistra, mettono in dubbio che la democrazia liberale sia riuscita a costruire una società equa, a creare una libertà e una prosperità durature, o che sia in grado di affrontare una situazione di profonda diseguaglianza e ingiustizia”, malgrado “al termine della Guerra fredda” abbia “trionfato il neoliberalismo e con esso l’idea di democrazia1”. Certo, sembra incredibile che qualcuno, oggi, possa scrivere simili trivialità: la questione, tuttavia, è che gli agitprop del sistema presidiano le trincee dei mediae della cultura, e che la loro influenza – per quanto di recente indebolitasi – è ancora considerevole.
Girovago un po’: sono quasi le 7 quando, nella sala principale, esordisce Felipe Van Keirsbilck, sindacalista belga che, nonostante il cognome, si esprime in francese. La domanda di base è questa: è possibile utilizzare l’euro per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, anziché per deprimerle? Non amo le slide, ma in questo caso aiutano (il francese scritto è abbastanza comprensibile, a differenza di quello parlato); l’intervento, inoltre, è più stimolante di quanto mi figurassi. Ogni questione viene sviscerata in maniera asciutta, dati alla mano, e le conclusioni sono senza appello: la risposta alla domanda retorica è no, l’euro è di per sé uno strumento di sfruttamento e dominio. Come comportarci allora? Felipe lancia due termini: “disobbedienza” e “resistenza”.

Tiro le somme, avviandomi verso la solita osteria di S. Lorenzo.
Si è finalmente diffusa la consapevolezza che l’Unione Europea non è ostaggio della crisi né una possibile soluzione, ma il problema in sé, o perlomeno un suo aspetto: edificata da lobbiese poteri economico-finanziari a loro immagine e somiglianza, quando minaccia e immiserisce le popolazioni sta semplicemente svolgendo la propria “attività statutaria”. Nessuna “redenzione” è possibile per un organismo che, come lo scorpione della fiaba, agisce secondo la sua natura. Condannare l’euro assolvendo la UE sarebbe perciò assurdo: un tizio che chiedesse la prigione per il revolver anziché per il sicario finirebbe dritto in manicomio. Dietro il sicario, però, c’è quasi sempre un mandante… e quel mandante, oggigiorno, non è interessato ad alcuna trattativa con le vittime designate. Noi.
Il Piano B, allora, si riduce per difetto di alternative all’endiadi riportata sopra: disobbedienza e resistenza. Chi può metterlo in atto? Noi tutti, intesi come cittadini, famiglie e lavoratori. Occorrerebbe altresì un’alleanza, stretta e diffusa sui territori, fra amministratori locali, tecnici e residenti, che – in nome dei principi fondamentali proclamati dalle Costituzioni, che non possono ridursi a mere enunciazioni – conduca a un rifiuto attivo della logica dei tagli, dei tetti e dell’austerità. Lotte locali e nazionali in una cornice continentale: inceppare il meccanismo significa costruire le premesse di un radicale cambio di sistema.
In estrema sintesi il Piano B è appunto una “premessa”, la premessa/promessa di un’Europa senza nulla a che spartire con le odierne istituzioni economiche, rifondata – dal basso – su radici, cultura e valori comuni, oltre che sulla solidarietà fra i popoli. Potrà sembrare paradossale, ma la ricostruzione del continente dovrà incominciare nelle province, nelle città, nei piccoli borghi.

1 V. SEBESTYEN, LENIN, La vita e la rivoluzione, Rizzoli 2017, pag. 10.

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