C'è un mistero nella vita di Pellegrino Artusi, che nemmeno i suoi più attenti biografi sono riusciti a chiarire: come mai questo agiato banchiere che covava ambizioni letterarie alte, come dimostrano i suoi due primi libri su Ugo Foscolo e Giuseppe Giusti, che era misuratamente sensuale e soprattutto aborriva in ogni aspetto della vita, sia privato che pubblico, ogni eccesso ed estremismo, che si lusingava dell' amicizia di conti e marchesi, di poeti e scienziati, come mai insomma questo "onest'uomo" (nel senso francese del termine) che aveva fatto della temperanza una regola di vita, giunto a settant'anni sente l'urgenza di scrivere un libro di cucina e questa volontà è così forte che non bastano a scoraggiarla la mancanza di editori disposti a pubblicarlo?
Una gastronomia all'insegna dell' economia
La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, il libro in questione, festeggia quest'anno il centenario. La prima edizione venne stampata infatti nel l891 dal tipografo fiorentino Salvatore Landi a spese dell'autore dopo che numerosi editori avevano sdegnosamente rifiutato il manoscritto. Le mille copie vennero vendute dallo stesso Artusi che si faceva indirizzare le richieste e i soldi a casa sua. Seguirono la seconda, la terza, la quarta edizione, ogni volta ampliate grazie anche a uno scambio fittissimo di corrispondenza con "gentilissime signore" che da ogni angolo del paese presero ad inviargli ricette. Nacque così, quasi per caso, il primo trattato culinario dell'Italia unita e uno dei maggiori successi librari del secolo, un best seller stampato fino ad oggi in più di un milione e mezzo di copie.
Per ricordare l'anniversario Forlimpopoli, paese natale di Pellegrino Artusi, sta preparando una festa con i fiocchi. Tra i manoscritti e le fotografie che usciranno dagli archivi custoditi nella rocca trecentesca che sorge al centro della città, neanche un bigliettino testimonia di come il progetto sia venuto maturando nella mente dell' anziano signore e quale demone l'abbia spinto per almeno vent'anni a provare e riprovare sui fornelli di casa ricette di ogni tipo, o meglio a farle cucinare dai due fedeli cuochi, Marietta e Francesco. Forse era un demone positivista, come suggerisce la bella e dotta prefazione di Camporesi all'edizione Einaudi, ristampata in occasione del centenario, e come fa intuire quella "scienza in cucina" messa programmaticamente nel titolo e dietro la quale si avverte l'influenza di quello stravagante personaggio, patologo, fisiologo,antropologo, igienista, scrittore e viveur che fu Paolo Mantegazza, grande amico di Artusi.
Certo la filosofia gastronomica che passa attraverso i "trasmessi", gli umidi, i fritti, le minestre asciutte e di magro, i "rifreddi", gli arrosti, gli erbaggi, i dolci al cucchiaio, le conserve, gli sciroppi, i lessi, le gelatine e le salse elencate in 790 ricette non è quella rabelaisiana di una generosa abbuffata, di una mangiata pantagruelica. Nelle ricette raccontate dall'Artusi il principio del piacere è subordinato a quello della buona salute e tiene in gran conto le regole della buona economia in virtù delle quali è, per esempio, esaltato il "signor polpettone" (ricetta 315) che si fa col lesso avanzato e "nella sua semplicità si mangia pur volentieri". "Un severo codice umbertino" definisce Camporesi il ricettario e forse è a sua volta troppo severo con questo trattato di cucina affettuosamente raccontato da un buon borghese dell' Italia pre-giolittiana, un signore indulgente e benevolo che ha i tratti rassicuranti di un vecchio zio.
Forlimpopoli ha a lungo snobbato questo suo illustre cittadino, al punto da abbattere circa vent'anni fa la casa di famiglia per far posto ad un bruttissimo edificio che ospita la Cassa rurale ed artigiana. Già lui vivo, del resto, gli fece alcuni sgarbi che Pellegrino, piuttosto permaloso di carattere, si legò al dito. Ora la città vuole rimediare sperando anche in qualche ritorno economico (cosa che non sarebbe certo dispiaciuta ad Artusi): la mostra che aprirà in novembre unisce astutamente cultura e gastronomia disegnando un itinerario culinario attraverso il libro. Sarà così sfatata una convinzione diffusa secondo la quale le ricette artusiane, per quanto austere, non sono più eseguibili: ricette di carta, come le dive da rotocalco, poco adatte ai palati, ai tempi e agli stomaci moderni. Avendo una volta affrontato con successo il "fricandò", grata a Pellegrino di poter sostituire il brodo di carne con l'estratto Liebig, posso testimoniare che non è sempre così. Mi sarei però trovata in difficoltà con il pasticcio freddo di cacciagione (ricetta 370, è uno dei piatti che verranno cucinati a Forlimpopoli), e forse anche i miei commensali. Nella mostra troverà posto la corrispondenza che unì Artusi alle sue lettrici: sono gentilissime Filomene, delicate signore Adele, sollecite spose conquistate dalla grazia del suo linguaggio e dalla precisione delle sue ricette. Ombre femminili di cui talvolta si intravede una traccia nel suo libro "Ve la dò col nome strano con cui la comperai da una giovane e bella signora, religiosa e onesta" scrive del pudding Cesarino, "uno di quei tipi che, per leggerezza, sono capaci di compromettere le persone che le avvicinano". È l'allusione più diretta a un rapporto con il bel sesso che si mantiene su un piano di cautissima galanteria. In Toscana, dove tutta la famiglia si era trasferita dopo che il bandito Passatore, una notte, aveva sequestrato i notabili di Forlimpopoli chiusi nel teatro, facendo impazzire dallo spavento una sorella di Pellegrino, Artusi frequentava le sue marchese e contesse (la marchesa Margherita Ruffoni, donna Rosina Guarini Petrucci, Elena Piccolomini, la contessa Maria Antonietta Gioppi Cofler) ma nulla si sa di suoi amori, nemmeno platonici. Morì a novant'anni, scapolo, e lasciò generosamente i suoi non piccoli averi al comune di Forlimpopoli specificando minuziosamente: tanto per la creazione di un ospizio di mendicità, tanto per l'asilo infantile, tanto per il cittadino di Forlimpopoli che per primo diventerà ministro di Stato del Governo d'Italia o Generale d'Armata nell'esercito italiano. E duemila lire da dividersi in "dieci doti annue di uguale valore fra loro" da dare alle fanciulle povere "notevoli per onestà di costume e per moralità di vita". La scelta spetterà ai parroci. Le giovani avrebbero dovuto essere scelte dai parroci della città, ma la selezione sarebbe stata confermata dal Consiglio Municipale "per meglio corrispondere al mio concetto e al mio desiderio di incoraggiare il buon corrispondere al mio concetto e al mio desiderio di incoraggiare il buon costume esente da bacchettoneria e di premiare l'onestà".
“la Repubblica”, 5 ottobre 1991