Nella sezione “cultura” del settimanale “L'Europeo”, nel maggio 1987, comparve un breve saggio di Giovanni Raboni sugli incipit romanzeschi, che ho già postato in questo blog. A corredo dell'articolo principale, in un “box”, Luciano Satta si produceva in un rapido sondaggio tra gli incipit dei romanzi italiani di quegli anni. L'articolo mi pare utile a restituire un po' del clima letterario in quegli anni di trapasso. (S.L.L.)
Questa vuol essere soltanto una specie di statistica; una specie perché le faranno difetto le cifre; si va a occhio e a mente. La prima impressione è che il romanzo italiano degli anni vicini a noi preferisca l'attacco di più facile immediatezza. È normale, ma poteva non esserlo, l'attacco con il verbo al passato. Fra le eccezioni, Aldo Busi della Vita standard; «Giuditta trascina una bambola di pezza e guarda fissa davanti a sé». Il passato più passato pare quello di Stanislao Nievo. Il palazzo del silenzio; «Nel 362 avanti Cristo, nel centro esatto del Foro romano dove era la palude prosciugata su cui nacque la città, si aprì una voragine».
Nell'aspetto stilistico e anche grammaticale sono da segnalare un paio di attacchi di «ripresa», ossia che sembrano richiamarsi a un già detto: con una o disgiuntiva, veramente fuori dell'ordinario, comincia la Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino: «O quando tutte le notti - per pigrizia, per avarizia - ritornavo a sognare lo stesso sogno»; invece La terza donna di Montefoschi ha un avverbio interlocutorio: «Nella casa vuota, frattanto, all'incrocio delle tre strade...».
style="margin-bottom: 0cm;">Se si toglie subito, come abbiamo detto di fare, la quindicina di libri che attaccano con il parlato, la maggioranza relativa spetta al cominciamento onirico: un sogno si è già visto in Bufalino; e pochissime parole dopo quel frattanto di Giorgio Montefoschi una donna si sveglia di soprassalto. E in un altro Busi, quello recente della Delfina bizantina, l'inizio è il seguente: «Da tempi placentari Teodora sognava palloncini colorati». Giuseppe Cassieri, Diario di un convertito: «Mi sveglio di soprassalto, come da parecchie settimane ormai, sotto l'incubo di una spada che forse appartiene all'arcangelo Michele». Claudio Marabini, Viaggio all'alba; «Aveva fatto un brutto sogno, di cui non ricordava nulla». Franco Rella, Attraverso l'ombra; «Avevo sognato».
Anche l'ambiente ferroviario è un attacco gradito. Enzo Siciliano, Diamante: «Una stazione con l'apparenza di una maceria. Sotto una pensilina, lontana da quella dove sono sceso, c'è una folla disperata». Nerino Rossi, Il ballo di Mara: «Il finestrino, da appannato che era, si era fatto rorido. La donna avvicinò il viso al vetro». Giorgio Saviane, Getsemani: «Lo vidi camminare lungo il treno. Veniva verso di me». Nel Viaggio all'alba di Marabini bisogna aspettare invece l'attacco del terzo capitolo: «Il treno si mosse lento». E tutt'altro che ferroviario nonostante il titolo, ossia statico, casalingo, cucinario, è l'attacco del Treno per Helsinki di Dacia Maraini: «Pelo una patata». Nel campo delle comunicazioni c'è solo il treno, beninteso sempre di 40 romanzi che abbiamo visto. Niente auto, niente pullman; salvo l'attacco aeronautico dell'Atlante occidentale di Daniele del Giudice: «All'inizio del campo d'erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare».
Si è visto che sono tutti attacchi piani, gradevoli, cattivanti, anche quello di Nievo che si rifa a due millenni e tre secoli e mezzo or sono, normale del resto per un romanzo archeologico, di conoscenze e di memorie. Ma se volete l'attacco più semplice di tutti, quasi elementare, proprio da tema di scuola, eccolo: «Era una bella mattina di fine novembre». Direste, non ricordandolo, che è l'attacco di uno scrittore svogliato e di un romanzetto bolso; e che l'autore forse aveva in mente il poco ispirato Snoopy della notte buia e tempestosa. Di Snoopy può darsi; in ogni modo è, tolto il prologo, l'attacco della Rosa di Eco.
EUROPEO/2 MAGGIO 1987