Le scorribande su Palmira, le distruzioni compiute o minacciate del suo patrimonio storico e artistico, sono riuscite a lacerare più di ogni altra immagine l’assuefazione alla catastrofe nell’opinione pubblica occidentale. L’archeologia può più della morte? Abituati a pensare che quello sia solo un inferno, ci si dimentica spesso dei vivi e del fatto che là ci siano alcune chiavi della nostra civiltà.
Devono aver pensato questo alla Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia, che dal 20 gennaio (fino al 25 aprile) per la prima volta mostra al pubblico, nella biblioteca di Palazzo Loredan dell’Istituto Veneto, una collezione unica di reperti provenienti proprio da quella terra che si stende da Aleppo a Baghdad. Non reperti qualsiasi: sono 200 tavolette e sigilli risalenti a oltre 5 mila anni fa che ci riportano alle origini della scrittura. Anzi, all’uso sistematico, codificato, narrante della scrittura.
Prima dell’alfabeto è una mostra sull’importanza dei codici nella gestione dei flussi di uomini e merci. Le stenografie cuneiformi raccontano di carichi di legnami e montoni, datteri e orzo per la birra, di carovanieri tra Assur e l’Anatolia. Sono due forse i pezzi più preziosi, sottolinea Frederick Mario Fales, importante assiriologo che ha curato la mostra assieme all’archeologa Roswitha Del Fabbro: «Una lunga lista di nomi e professioni risalente al XXI secolo a. C. e una tavoletta medica che prescrive le cure per una partoriente afflitta da coliche, databile attorno al XIII secolo a. C.».
Che celebri Gudea principe di Lagash o contenga missive tra prefetti di città-stato, un enorme catalogo di tavolette d’argilla messo a punto da un esercito di scribi ci consegna una genealogia dell’ordine sociale e tramanda molteplici cronache di uno dei fulcri del mondo.
In questo senso, la mostra della Fondazione Ligabue sembra avvertire l’urgenza di riprendere il filo della narrazione di quei luoghi per recuperare un qualche senso di umanità. Lo fa, per di più, proprio nel momento in cui una delle promesse della globalizzazione viene tradita in modo eclatante: il mondo globale è diventato in gran parte off limits. Vale anche per gli archeologi, fa notare Fales: «Banditi dai luoghi di scavo, siamo tornati a osservare la Mesopotamia antica dalla sola visuale delle nostre biblioteche».
C’è stato un tempo, invece, in cui gli scavi erano possibili, il fermento culturale ribolliva anche sotto regimi autoritari e il mercato antiquario era forse meno opaco. Uno dei protagonisti di quella stagione è stato il veneziano Giancarlo Ligabue: fondatore di una delle più importanti imprese nel settore della logistica e del catering, era allo stesso tempo archeologo e paleontologo. Le sue spedizioni in ogni continente hanno portato alla luce una serie di meraviglie e si sono prese cura dei luoghi in odio ai predatori professionisti e neocoloniali. Ha alimentato un collezionismo dolce e coltissimo, capace di sottrarre all’illegalità un intero patrimonio. Perché, alla fine, «questa è anche una mostra sull’archeologia del collezionismo», come la definisce Fales.
Così si sono potuti salvare i tanti sigilli in esposizione, finora mai usciti dalle casse della collezione, quasi un unicum che ha ben pochi paragoni: alcuni, grandi spesso pochi centimetri, servivano ad autenticare i documenti; altri, cilindrici, imprimevano ruotando scene di guerra o mitologie, sfilate di prigionieri e banchetti, con minuzia di dettagli e raffinatezza stilistica.
La mostra conduce il visitatore in un percorso immersivo, con apparati hi-tech, olografie e riproduzioni tridimensionali che ne amplificano la potenza simbolica. Inti Ligabue, che alla morte del padre ha preso le redini della holding e della collezione, racconta che la storia di quelle tavolette e quei sigilli «era rimasta in sospeso. Ogni volta, orientandomi prima e perdendomi poi, ho cercato di comprendere l’idea contenuta in quei messaggi. Non avevo mai capito appieno il vero e immenso valore umano, l’incredibile potenza culturale e la modernità di quel mondo antico».
Pagina 99, 28 gennaio 2017