Sabato 17 ottobre 2009 “il manifesto”, quotidiano comunista, pubblicava nella sezione “Cultura & visioni” la recensione (di Angelo Mastrandrea) di un libro uscito qualche giorno prima per la manifesto libri, I terremotati di Angelo Iozzoli, accompagnata da un’anticipazione del volume. Al tempo avevo ritagliato senza leggere. L'ho fatto solo ora, dopo l'altro terremoto. Avevo fatto male a non leggere: l’assaggio è assai convincente e il libro dev’essere utile e bello. Ripropongo qui i materiali della pagina, cominciando con la recensione di Mastrandrea e proseguendo con il brano dal libro di Iozzoli. (S.L.L.)
Sant'Angelo dei Lombardi dopo il terremoto |
Il mondo oscurato dal miraggio del progresso (Angelo Mastrandrea)
Cosa accadde in quei 35 interminabili secondi tra le 19,34 e le 19,35 del 23 novembre 1980 è stato ampiamente raccontato. La memoria del terremoto si tramanda dall'Irpinia al basso salernitano attraverso una narrazione orale che oscilla tra un acritico fatalismo e una altrettanto preoccupante tendenza alla rimozione. Quello che conta, per Giovanni Iozzoli nel suo I terremotati (manifestolibri, pp. 158, euro 14), è invece il dopo, «gli anni che seguirono, i giorni che si misero a girare vorticosi e selvaggi, insieme ai soldi, agli ingegneri, ai ricottari e agli spacciatori, alle pale meccaniche, alle facce stranite della gente». Iozzoli lo racconta attraverso una narrazione che, utilizzando la forza del ricordo e della conoscenza dei luoghi, delle persone e dei modi di vivere e ragionare che solo chi vi è nato può capire a fondo, riesce talvolta a spingersi dove nemmeno le inchieste giudiziarie e giornalistiche hanno osato.
Un esempio per tutti: il mito dell'industrializzazione. Quella «rivoluzione» che avrebbe dovuto segnare il riscatto per le aree più interne della Campania da un passato plurisecolare di povertà, emigrazione e feudalesimo. E che avrebbe dovuto trasformare la sciagura del terremoto in un'opportunità di riscatto. Quel che è accaduto ha riempito pagine e pagine di verbali della commissione d'inchiesta: aree industriali costruite nel nulla, fabbriche mai entrate in funzione. Perché accadde è spiegato con una semplicità disarmante: «Non che morissimo dalla voglia di andare in fabbrica. Ma l'idea di non dover fare centinaia di chilometri per sopravvivere, e coabitare per anni in città fredde ed estranee con zii e compari che ti ospitavano, riuscire magari ad avere uno stipendio normale guadagnato vicino casa - e con tutti gli annessi e connessi, le strade, le illuminazioni, i negozi - ci sembrava allettante. Di natura, di boschi, di montagne e campagne ce n'erano in abbondanza, una parte la potevamo sacrificare al progresso». Tutto qua, anche se per capirlo bisogna esserci nati e vissuti in quei posti dove, parliamo della fine degli anni '70, anche solo andare ad Avellino voleva dire affrontare un vero e proprio viaggio e uscire a passeggio dopo l'imbrunire significava quasi violare una sorta di coprifuoco non dichiarato e dover aguzzare la vista per riconoscersi semplicemente perché di lampioni non ce n'erano tanti e non potevano sopperire alla bisogna le insegne di negozi inesistenti. È la stessa potente molla, più d'uno la definirà «miraggio», che anni dopo avrebbe spinto i vicini lucani ad accettare la Fiat a Melfi e il petrolio in Val D'Agri. Scritto da uno che a sua volta andrà via dal paese per andarsene a lavorare in fabbrica a Modena, racconta ancora meglio l'ennesimo raggiro di cui è stata vittima una fetta di popolazione meridionale e soprattutto un territorio che non recupererà più la sua verginità.
In un libro che si legge come un romanzo, un ingrediente fondamentale sono poi le storie e i personaggi. L'immancabile prete, don Tonino, «un bravo cristiano sempre pronto a darti una mano». I giovani «cafoni» del posto, quelli che «ci inquadravano subito, per le guance rubizze e irritate dal freddo e dai salumi, o per l'odore di muffa che sempre impregnava i nostri armadi». E una sorella, Rita, che finirà a fiancheggiare la lotta armata. Quasi un'intrusa in una storia che racconta altro.
Antonio Sibilia |
Don Antonio e i cutoliani (Giovanni Iozzoli)
Mentre tutto intorno cambiava a grande velocità, a cominciare dalle nostre abitudini (eravamo tecnicamente tutti dei baraccati, e non eravamo già più dei campagnoli), una delle poche certezze che coltivavamo era l'Us Avellino. L'attesa della domenica, anche se era rarissimo trovare i soldi per lo stadio, ci riempiva buona parte della settimana. Quelle maglie verdi brillanti su quel prato spelacchiato le ricordo bene e mi danno un po' di gioia anche oggi. Certo, anche il pallone era finito dentro la grande bufera di cambiamenti che sconvolgeva il nostro piccolo universo.
Quando l'Avellino era salito in serie A, cinque o sei anni prima, la maggior parte degli italiani non sapeva che esistesse un capoluogo di provincia con quel nome. I giocatori facevano sempre le bizze, quando dovevano trasferirsi da noi, e spesso rifiutavano il trasferimento. Ricordo pure uno, un bel tipo, un po' matto, che venne a giocare ad Avellino (doveva essere il '79) e alla prima conferenza stampa, quando gli chiesero cosa pensava dello stadio nuovo, rispose: bello, peccato che l'ospedale fa schifo, potevate pensare prima all'ospedale. E aveva ragione, non dico mica di no: ma noi, noi tutta la popolazione, eravamo rassegnati agli ospedali schifosi, pieni di topi e umidità, non era una cosa nuova. Era la serie A la cosa nuova e di quello ci inorgoglivamo.
Il boss della società, e di tutto il resto, era Don Antonio Sibilia. Non sto a raccontarlo, perché con quei ricordi si finisce presto nel ritratto naif dell'epoca in cui il calcio era ancora un affare da costruttori di provincia, che si lanciavano nell'avventura con un po' di milioni e poca grammatica. Ma in quell'epoca e in quel posto, non si scherzava più tanto, perché dietro la cortina del pittoresco, intorno al groviglio maligno tra calcio e affari, si cominciò a sparare di brutto. Sparavano ai magistrati, ai testimoni, ai giornalisti, e naturalmente ai guaglioni con la permanente, l'orecchino e i jeans attillati, anonimi fanti di una guerra infinita che scomparivano all'improvviso per rispuntare fuori pochi giorni dopo carbonizzati in qualche vecchia macchina bruciata abbandonata in campagna. Non mi ricordo se percepivamo quanta violenza sorda stesse innervando la terra sotto i nostri piedi: i soldi della ricostruzione erano proprio come l'energia di un terremoto che si concentra pronta a esplodere e a travolgere tutto e tutti. C'era da fare miliardi a palate con le baraccopoli e le roulottopoli, col calcestruzzo che colava sui territori come lava di un Vesuvio inesauribile; c'era da far soldi con i nuovi piani regolatori (pianificati nei salotti di certi boss di provincia), con l'edilizia antisismica, con le strade che dovevano far uscire noi montanari dall'isolamento sforacchiando l'Appennino; e c'era da far soldi con le nuove aree industriali, i capannoni, i finanziamenti allo sviluppo. C'era da far soldi anche col calcio, naturalmente.
Mi chiedeva Ciccone: - ma tu piensi che don Antonio è mafiuso? Cioè, proprio mafiuso, mafiuso?
- Naturale - mi sembrava una cosa scontata che lo fosse.
- Ma a nui non ci interessa. Fino a quando face l'interesse de la squadra, de la società... E poi le costruzioni... e le ricostruzioni... Chi 'lle porta annanzi tutte quelle cose senz' e isso?... Sapevamo tutti che era un po' delinquente. Che quello era un settore nevralgico, dove ogni malaffare e ogni potere si intrecciava con i guai di queste terre.
Io, per pura casualità, una volta, l'avevo anche sentito minacciare, e quasi alzare le mani contro un idraulico che doveva mettergli a posto le docce del campetto piccolo di Torrette, dove si svolgevano gli allenamenti a porte aperte della squadra a cui noi alle volte andavamo; e tutto in pubblico, senza troppe remore, perché il soggetto era così, non fingeva. Veniva dai cantieri straccioni degli anni '50, il percorso comune da operaio a capomastro a piccolo impresario, e poi chissà con quanti raggiri era diventato smisuratamente ricco, costruendo tutto il costruibile, vincendo tutte le gare, attingendo a ogni credito utilizzabile.
Si era arricchito, ma era sempre incazzato, col fegato marcio, e lo sguardo marrone da gatto, con gli occhi soffocati dalle palpebre grasse di chi ha sempre paura di essere derubato o insolentito. Lo adoravamo. Potevamo mai pensare che fosse una mammoletta, o un cittadino modello? Era naturale che fosse un po' delinquente. E poi c'era una guerra in atto, dalle nostre parti. I cutoliani contro tutti. Anche di quel casino, con centinaia di morti ammazzati nelle strade, capivamo poco. Però ci appassionava come un film. All'inizio sembrava roba lontana, di Napoli e provincia, da guardare al telegiornale la sera. Ma poi capimmo che si stava avvicinando pericolosamente ai nostri prefabbricati e alle nostre montagne. E quando arrestarono don Antonio e altre 850 persone, e leggevamo i nomi dei costruttori, gli stessi che ci avevano installato le baracchine dove vivevamo e che avevano già messo le mani su mezza provincia, capimmo che non eravamo stati solo l'epicentro del terremoto, ma anche di qualcos'altro, qualcosa che non sarebbe durato pochi istanti, come la scossa.
Di delinquenti, certo, ce n'erano sempre stati, ma i cutoliani erano un'altra razza: avevano una mentalità politica, non erano solo un pezzo di camorra, erano un partito, con le politiche sociali, il finanziamento pubblico e tutto il resto. Il Professore non voleva mica solo i soldi degli appalti; lui voleva governare, voleva gestire la sua fetta di società, ed essere amato per il suo prezioso ruolo sociale.
Il blitz contro Don Antonio me lo ricordo. Tutti dentro. Arrestarono tutti, imprenditori, politici, il presentatore del pappagallo e persino un prete e una monaca, accusati, questi ultimi, addirittura di essere i portavoce dei boss fuori dal carcere. Il prete non lo difendeva nessuno di noi: era stato il mio insegnante di religione, e aveva la spiacevole abitudine di strapparti le basette se non stavi attento.
Su Don Antonio noi ragazzi eravamo comprensivi e possibilisti - un chiaro esempio di garantismo sportivo ante-litteram. Ma sul presentatore no, quello proprio non ci andava giù: lo davamo tutti per colpevole. Il fatto è che il povero Tortora aveva un aspetto troppo per bene, da signore distinto e uomo di mondo: e tutti ritenevano assolutamente plausibile, da un punto di vista letterario (e anche chi non ha mai letto un libro sa che la realtà è profondamente letteraria..), che il gentiluomo con i capelli bianchi fosse uno spacciatore malavitoso.
Invece Sibilia aveva il physique du rôle del delinquente, e quindi, forse, per lui, poteva valere il ragionamento opposto (..)
Gli anni frenetici che seguirono, ci ribadivano ogni giorno - a volte impercettibilmente, a volte in modo eclatante - il senso del grande mutamento che tutto travolgeva. Non avere più la casa o il lavoro erano solo la parte più visibile della faccenda.
Era come se all'improvviso il vento avesse fatto saltare i paletti di una proprietà e ti fossi ritrovato ad andare a memoria, orientandoti su quella roccia o quell'albero, per ricordare i confini e non perderti nelle terre d'altri.
Già, le terre. La campagna, almeno per come me la ricordo io, era diventata differente, si era, per così dire, sporcata. L'esercito di ingegneri, capocantieri, appaltatori, geologi, speculatori, era arrivato silenzioso, occupando ogni angolo di campo o di bosco, fermandosi solo dove la roccia dura sale e si impenna infrangendo i sogni dei costruttori.
L'avanguardia edilizia lasciava ovunque, come una lumaca bavosa, tracce del proprio passaggio, del suo furore divino di ricostruzione del mondo dopo il diluvio.
“il manifesto”, 17 ottobre 2009