Nel 1975 Comune e Provincia, secondo i dettami di legge, nominarono il Consiglio d'Amministrazione dell'ospedale, che aveva un nome monarchico, omaggio al “re soldato” che aveva voluto il fascismo e firmato le leggi razziali. Tra i consiglieri, indicato dal partito, c'ero anch'io.
Il paese, da quando era arrivato l'oro nero, era cresciuto a dismisura e disordinatamente: da ventimila abitanti era passato a ottanta mila; ma non era diventato una città, piuttosto una caotica conurbazione. Era cresciuto, e di molto, anche l'ospedale, per far fronte ai bisogni, ed anche quella crescita non aveva seguito criteri di razionalità, benché a governarla, per molti anni, non fossero stati i “politici”, ma anticipando gli usi degli anni a venire, un uomo solo, un funzionario dell'amministrazione. Al tempo si chiamava commissario, non “manager” come adesso, ma maneggiava quattrini e gestiva le “risorse umane” ed era uomo di fiducia dei politici che lo avevano nominato.
Il funzionario era “cosa nostra”, cioè godeva della fiducia del clan politico dominante nella sanità di quella provincia di feudi e di miniere e in particolare del capoclan, che veniva da un paese del vallone. Costui, laureato in medicina, era deputato e sindaco di lungo corso; proprio in quegli anni era stato Sottosegretario di Stato alla Sanità. Il commissario dell'ospedale era cosa sua e proveniva da un altro, più grande, paese minerario e mafioso, ove il boss era un certo Peppe, organizzatore di omicidi eccellenti perfino nella capitale isolana, dove agiva con la copertura di un impiego nell'ente minerario.
Quel Peppe avrebbe conosciuto l'attenzione di un grande scrittore e una certa fama nazionale, quando, fatto ammazzare da una cosca rivale, ebbe funerali davvero solenni, con la partecipazione di monsignori, sottosegretari, deputati nazionali e regionali, senatori, notai, grandi avvocati e luminari della medicina.
Fatto sta che negli anni del commissario l'organico dell'ospedale si arricchì di “amici degli amici” e di “parenti dei parenti”. Tra di loro il centralinista cieco, un portiere invalido, portantini, infermieri, funzionari, impiegati, tre o quattro medici, tra i quali il direttore sanitario, imparentato col celebre Peppe.
Il paesone ov'era allocato l'ospedale non aveva tradizioni mafiose autoctone: c'era tanta delinquenza, anche violenta, ma non un organizzato e sistematico controllo del territorio ed una scientifica infiltrazione dei pubblici poteri. Fu in quegli anni che vi furono i primi attentati, prevalentemente dimostrativi, di carattere propriamente mafioso; dopo ci sarebbe stata una vera e propria mattanza tra cosche rivale. Di questo so poco, ero già andato via, ma conservo il sospetto che l'Ospedale fosse uno strumento di penetrazione.
Nei venti mesi che fui nel consiglio di amministrazione scoprii, senza neanche troppo impegnarmi a cercare, alcune magagne emblematiche. Vigeva l'uso, per far prima, di assegnare i piccoli appalti con il sistema della trattativa privata, chiedendo i preventivi ad almeno tre ditte. In realtà li si chiedeva tutti a una sola ditta, quella predestinata all'affare, che provvedeva a fare arrivare con la propria offerta quelle di altre ditte amiche. Nessuna prova purtroppo, solo confidenze del tipo “qui lo dico e qui lo nego”, accompagnate dal “se non fai così, non lavori”. Si scelse di ricorrere alle gare pubbliche di appalto anche per spese piccole, ma non sono certo che il problema fosse risolto.
Altra voce fondata riguardava il reparto di Otorino, che prevedeva turni infermieristici notturni, ma non molto impegnativi, trattandosi generalmente di interventi per adenoidi e tonsille. Seppi poi che un paio di infermiere, piuttosto bellocce, arrotondavano prostituendosi in reparto. Il portiere invalido, con un passato burrascoso, faceva entrare le automobili dei clienti fidati e facoltosi: è molto verosimile che l'uomo partecipasse agli utili e temo che ci fosse qualche complicità poliziesca, pantere che senza apparenti ragioni nelle notti giuste tranquillamente irrompevano nell'ospedale e tranquillamente ne sortivano. Dopo un inutile esposto, denunciai la cosa sui giornali: forse il mercimonio ospedaliero ebbe termine e il traffico si spostò altrove.
Alla fine arrivò anche un'inchiesta giudiziaria, con intercettazioni telefoniche. Alcuni proprietari e professionisti del luogo, incluso uno dei primari del nosocomio, avevano subito tentativi di estorsione: le richieste di pagamento del pizzo provenivano dal centralino dell'ospedale, nele ore di servizio del cieco del vallone.